Covid e contesto urbano. Corpi frammentati che si ristrutturano in nuove soggettività sociali. “At Home”, un’esposizione fotografica del giornalista e fotografo di Tusciaweb Daniele Camilli. Dal 6 al 20 luglio. 17 fotografie per raccontare tre mesi di emergenza Coronavirus a Viterbo. Utilizzando le affissioni pubbliche della città. Sei metri per tre metri e 12×3. Con il patrocinio del comune di Viterbo. Lungo le strade attorno alle mura del centro storico. A dare il nome a ciascuna foto, il numero del cartellone pubblico e la via dove è esposta.
Le fotografie si trovano in viale Raniero Capocci (10 scatti – 127, 201, 128, 203, 204, 205, 129, 202, 206, 207), via del Buon Pastore (2 – 101, 102), via Tangenziale Ovest (1 – 121), via Tangenziale Ovest/Pilastro (1 – 124), via Alessandro Volta (1 – 125), largo Antonio Meucci (1 – 135) e strada Cassia Nord (1 – 112).
“Il lavoro – spiega Daniele Camilli – è contemporaneamente una riflessione e un intervento. Una riflessione sulle trasformazioni del contesto urbano determinate dal Covid. Un contesto, quello viterbese, passato dalla città cultuale, la città che dispone tempi e spazi attorno ai luoghi di culto, alla città culturale, quella che invece distribuisce spazi e tempi intorno agli eventi culturali e turistici. Un’idea di città che adesso rischia di fallire, anche all’emergenza Coronavirus. Con la prospettiva di un vero e proprio vuoto d’identità urbana”.
“Un lavoro – aggiunge Camilli – che vuole anche essere un intervento nel contesto urbano, perché la foto nasce da questo e si inserisce al suo interno come racconto di un’esperienza e restituzione della stessa ai suoi diretti protagonisti. Resi tali. Come punto di forza da cui partire, e un nuovo immaginario sociale da ricostruire”.
I soggetti ritratti nelle fotografie di Daniele Camilli sono operai, braccianti, badanti, sacerdoti, studenti, migranti, rifugiati, persone comuni dei quartieri popolari di Viterbo con cui l’autore ha in parte vissuto durante i primi mesi dell’emergenza. Uomini e donne dimenticati che, assieme agli operatori sanitari e alle forze di polizia, hanno vissuto l’emergenza anche col problema della sopravvivenza quotidiana e che più di tutti subiranno le conseguenze economiche di quanto accaduto. Sono stati però coloro che, in assenza degli altri, reclusi in casa dai provvedimenti voluti dal governo, hanno riempito uno spazio urbano e sociale lasciato vuoto. Urbano, in termini appunto di spazi urbani cittadini. Sociale, perché queste persone hanno contribuito a tirare avanti il paese senza avere nulla in cambio. Persone che tuttavia, giorno dopo giorno, stanno formando una nuova soggettività sociale alla ricerca di forme organizzative capaci di rappresentarne necessità e bisogni.
“Corpi e contesti urbani – prosegue l’autore – che durante il Covid hanno subito una mutazione profonda, accelerando processi già in atto da tempo. Un corpo che, dopo il Coronavirus, non si pone più come punto di vista sul mondo, ma oggetto stesso del mondo e del contesto urbano in cui appare e si manifesta. Senza però più avere la capacità di focalizzare e riconoscere i rapporti sociali di forza e produzione, divenuti a loro volta astratti e sfuggenti. A tal punto da far dimenticare che un corpo muore non per essersi ammalato, ma si ammala perché deve morire”.
“Non più, dunque, un corpo come evidenza e vissuto di una verità, un volto che richiama alla responsabilità, ma soltanto un corpo diventato misura di un contesto dove l’Altro rischia di diventare colui che lacera prospettive e spezza sicurezze personali”.
Corpi che con le fotografie si dispiegano lungo tutto il tessuto urbano. Attorno alle mura del centro storico e a ridosso delle periferie. Per raccontare anche, con la loro presenza, una società in cui l’immagine è diventata il solo rapporto sociale tra le persone.
Corpi fotografati e poi isolati. Destrutturati e divisi in parti. Sparpagliati e identificati da un numero, quello delle affissioni pubbliche dove le foto sono esposte. Fotografie senza paesaggio perché il paesaggio è quello della città. Sta di fronte e sullo sfondo, e con il quale lo scatto entra in relazione. Dialettica e conflittuale.
At Home è invece il titolo. Perché dopo l’isolamento dovuto al Covid, la dimensione della casa, che ci contiene e caratterizza, è mutata radicalmente.
“La casa – sottolinea l’autore – è il luogo del vuoto e del ricordo. Del vuoto, perché i corpi sono di passaggio oppure assenti, mentre lo spazio definito familiare è vissuto essenzialmente per svegliarsi, mangiare e dormire. E le relazioni, lo stare insieme, sono mediate, anche in tal caso, dalle immagini. Un luogo, la casa, dove l’assenza si pone tuttavia come ricordo presente. Gli oggetti in casa richiamano infatti la presenza di chi non c’è in vista del suo ritorno”
“Il contesto sociale – aggiunge poi Camilli – è invece il luogo del vissuto e della memoria intesa come selezione sociale dei bisogni. Questa dimensione si è rovesciata e i corpi, all’interno del tessuto urbano, si sono come frammentati e sembrano aver perso definitivamente il filo del discorso pubblico. La dimensione della casa nei mesi del Coronavirus è mutata. Il luogo del vuoto e del ricordo, non più della memoria, è adesso il contesto urbano. Quello da cui ci siamo ritirati e dove, di volta in volta, torniamo. Uno spazio che va rinegoziato con chi, nello stesso periodo di risacca del Covid, l’ha invece riempito. I soggetti ritratti nelle foto”.