di Alessandro Tozzi
Lascio l’Italia gli spaghetti al dente e un partigiano come Presidente, cantava 40 anni fa esatti Toto Cutugno, incarnando nel mondo il prototipo del perfetto paesà, che emigrava con la morte nel cuore.
Ci lascia oggi Toto, appena compiuti gli 80, e riemergono dal nulla sue canzoni dimenticate, con le 15 partecipazioni a Sanremo (record a pari merito), la vittoria nel 1980 e i sei secondi posti, questo si record assoluto, che ne fanno il Poulidor italiano, anche se davanti a lui non sempre aveva grandi canzoni ed ancor più grandi cantanti.
Cutugno si afferma alla fine degli anni ’70, soprattutto come autore di canzoni, e ricordo ancora che il suo più grande vanto era aver scritto un brano poi cantato da Frank Sinatra; a inizio carriera attinge da lui Adriano Celentano, che in quella fase di carriera si avvicinava molto a lui come stile, tanto che Soli e il Tempo se ne va sono due pezzi suoi ma molto celentaniani.
Nel 1980 vince Sanremo, quell’anno presentata da un giovane Benigni ed ancora in tono decisamente minore, con Solo Noi (secondo Enzo Malepasso, terzo Pupo con Su di noi, la hit del festival).
L’italiano arriva incredibilmente solo quinta nel 1983 (prima Tiziana Rivale, seconda Donatella Milani, terza Dori Ghezzi: a Madrid avrebbero fatto una panolada per 2 giorni), scritta appositamente per Celentano e da lui incredibilmente rifiutata, ed è un pezzo che conquista mezzo mondo, certamente per intero tutto quello degli emigrati, con un riff e un testo molto ruffiano ma decisamente efficace; negli anni a seguire l’ho sentita in giro per il mondo in alcuni posti, a volte ridendo, altre emozionandomi per quell’improvviso richiamo della patria così insolito.
Da lì diventa il re indiscusso di Sanremo per i 6/7 anni seguenti, con una marea di secondi posti, attraverso canzoni sempre più nazionalpopolari e con una vena di spiccata ruffianeria, da Figli a Mamme passando per Emozioni, ma con canzoni comunque canticchiabili, buone per la settimana sanremese.
La sua vena nazionalpopolare trova la sua consacrazione a tutto tondo in televisione, fra sigle azzeccatissime (la Domenica Italiana resta fra le migliori nel suo genere) e conduzioni varie di programmi più nazionalpopolari di lui, ma per il 1990 passa ancora per quel Sanremo, dove quell’anno si cantava in coppia.
A Toto viene affiancato nientemeno che il divino Ray Charles, che sulla carta è come se io giocassi il doppio con Jimmy Connors a Wimbledon, e invece la sua canzone Gli Amori, comunque buona anche cantata da Toto, nell’interpretazione del divino Ray divenuta una indimenticabile Good love gone bad, che ci fa pensare a distanza di 10 anni che Toto Cutugno poteva essere il Mogol degli anni ’80 se avesse trovato un Lucio Battisti cui far cantare le proprie canzoni (fra le tante segnalo che Io amo di Leali nel 1987 è sua, e avrebbe meritato, quella si di vincere un Festival).
Quel pezzo di Ray l’avevo ascoltato un mese fa in una puntata di Techetechetè omaggio agli 80 di Cutugno, e mi ero commosso a sentire un pezzo di storia della musica che canta a modo suo questa misconosciuta canzone italiana e ne fa un pezzo da brividi, lasciandoci il dubbio che anche se cantasse l’elenco del telefono ti farebbe venire i brividi lo stesso, ma tant’è.
Nel 1992 vince anche l’Eurofestival con Insieme, uno dei tre ad averlo fatto in 60 anni, insieme a Gigliola Cinquetti e Maneskin, mica pizza e fichi, a dimostrazione che fosse un personaggio forse sottovalutato forse perchè figlio di una sorta di generazione di mezzo, nè cantante della vecchia guardia nè cantautore classico anni ’70.
Toto se ne va oggi, con i suoi 100 milioni e passa di dischi venduti nel mondo, il suo capello corvino e cotonato, lo smoking, lo sciarpone bianco, Pippo Baudo al suo fianco, decisamente figlio di un’altra Italia, quella con autoradio in mano, moviola la domenica e una preghiera alla Madonna.
E’ uno di noi italiani, e non possiamo far finta di niente: lasciatemi cantare perchè ne sono fiero, io sono un italiano, un italiano vero.
Ti sia lieve la terra, Toto.
Gli amori saranno anche quasi tutti uguali, ma quel pezzo di Ray non ce lo dimenticheremo più.

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